(A cura di Luigi Carluccio)
La natura ha un suo disegno, anche se appare sempre diverso e sempre nuovo. Anche l’esistenza ha un suo disegno in parte palese, in parte segreto, che fa gli uomini così uguali e al tempo stesso così diversi.
Da quando esiste, l’uomo, ogni uomo a suo modo rivela d’essere, con una insistenza e una continuità che conferiscono ai suoi tentativi uno stato di necessità, tentato di trovare le relazioni possibili tra l’uno e l’altro disegno: quello della natura e quello dell’esistenza, che son lì sotto i nostri occhi eppure sembrano sfuggire, eludere la presa, nel momento stesso in cui ci s’illude di averli catturati.
Tentato, voglio dire l’uomo, di inventare parole e figure che rivelino e qualifichino in essi tra la natura e la vita, perché non si sperdano, non si consumino nel momento stesso in cui sono ben presenti all’attimo presente. Questa è l’arte? È una domanda che ha tante risposte. Una delle possibili risposte, oggi, è la fotografia; anzi l’atto del fotografare e prima ancora il desiderio, la necessità di fotografare. È una risposta privilegiata, perché essa porta il disegno della natura, che è un disegno cosmico nel quale siamo tutti coinvolti all’interno del disegno della vita, che è disegno privato, un disegno al quale ognuno di noi è chiamato in ogni istante a partecipare.
La fotografia infatti offre la sensazione che per suo tramite quei due disegni possano coincidere, combaciare, certo essa detta le condizioni di una possibile coesistenza e ne favorisce una rivelazione oggettiva. L’occhio della camera oscura, dietro il quale anzi “dentro” il quale, sta l’occhio dell’uomo, cattura momento per momento il fluire dell’esistenza, l’azione, la parte della vita sulla scena del gran teatro del mondo. Così, due cose che sembrano distinte e separate fanno una cosa sola, un solo intreccio in un’unica immagine.
Il territorio, la scena dell’immagine fotografica, è territorio della natura e al tempo stesso della vita. Tutto ciò che nel territorio della vita e della natura è caduco perché modifica il suo aspetto con gli anni, con le stagioni, con i giorni e con le luci del giorno, ha una sua perenne resurrezione attraverso l’immagine fotografica. Torna a vivere, cioè ad essere vero di nuovo e presente accanto a noi, davanti ai nostri occhi, nella straordinaria ambivalenza, o ambiguità, di immagine che rispecchia una realtà uguale per tutti e di immagine che invece esprime una moralità, una spiritualità, un pensiero singolari; cioè diversi da tutti gli altri, perché costituiscono tutti insieme lo sguardo vivente del fotografo, e dell’occhio che sta dietro o dentro la camera oscura.
Le fotografie di Piero Masera sono testimonianze belle e struggenti dello straordinario sortilegio della fotografia, della sua facoltà di collocarsi tra verità e finzione, tra oggettività e invenzione o fantasticheria poetica. Una dopo l’altra, una accanto all’altra realizzano la mappa del territorio che ha costituito nel tempo il fondale della sua azione di vita. Ognuna di esse è la tappa di una progressiva conquista. Come in tutti i casi in cui il fatto di stabilire le relazioni che esistono tra la natura e l’uomo vuol dire percorrere la strada che porta al nodo più remoto dell’esistenza, la strada della dimensione del profondo, che cioè vuol dire sperimentare la conoscenza di sé e riconoscere la misura e la quantità del proprio impegno e il modo di collocarci nell’area più vasta delle altre esperienze, di cercare quindi le nostre affinità elettive, anche il territorio di Piero Masera è un territorio sollecitato da una forza centripeta, dal più lontano tende al più vicino.
Quando, vent’anni fa, egli cominciò a fotografare era naturale che il suo spirito ed il suo occhio esprimessero quella specie di avidità di immagini che caratterizza l’avvio di ogni nuovo gioco meraviglioso e l’inizio di ogni attitudine ad analizzare e catalogare le cose, che, in arte, è il principio di una definizione di sé, il primo segno di un possibile autoritratto. Così, lo sguardo di Piero Masera si è posato sulla vastità e sulla varietà del mondo che fisicamente poteva percorrere: il mondo dei richiami e dei viaggi.
Tutto lo attraeva e tutto lo affascinava attraverso la camera oscura, che per un istante diventava il suo “doppio”, ed attraverso il momento magico dello scatto del diaframma che agganciava la nuova preda. Fotografare vuol dire infatti, sempre, in un certo senso ed in una certa misura, creare il proprio mondo: un mondo nuovo che coglie di sorpresa gli altri: Finlandia o Grecia, Spagna o Tunisia, la Camargue o il Kenya, l’esotico di un paesaggio inedito o il brivido di una corsa automobilistica, il sacrificio dell’agnella nella tribù dei Gabbra o le manifestazioni popolari, gli scioperi, le contestazioni rabbiose del disagio sociale.
Il fotografo Masera era anche medico, conosceva i turbamenti e i dolori della vita e questi certamente facevano parte dell’intimità del suo sguardo, provvedevano ad approfondire il clima delle sue immagini che a volte sono toccanti, urgenti. Ma per quanto potesse allontanarsene, inseguendo il desiderio del nuovo, il territorio fotografico di Piero Masera aveva un suo centro, cui lo richiamava quasi una forza magnetica, un luogo che coincideva con la sua persona, con la sua spiritualità, la sua moralità, la sua cultura, con la stessa sua interpretazione dei valori dell’esistenza e dei significati degli avvenimenti.
Di quelli che si manifestano allo scoperto, a volte con estrema violenza e di quelli che invece richiedono un lavoro di scavo, una discesa all’inferno tra le pieghe della precarietà e della fragilità delle cose viventi; alla radice insomma della sofferenza umana. Quel luogo coincideva anche con la terra natale, Alba, le Langhe, la bellezza sfrontata e discreta dei loro paesi fatti di castelli, di vigneti, di campi verdi o rossi d’autunno, o velati di nebbia, o innevati. Una bellezza sottile e al tempo stesso resistente nella grazia della memoria, così come lo sguardo del fotografo ce le ha consegnate.
Non è facile dimenticare le luci del mattino sulle Langhe di Piero Masera, le terrazze digradanti verso le rive della Bormida, i covoni investiti dai raggi del sole a Castino, il cielo che si spegne dolcemente alle spalle del castello di Gorzegno, i casolari sparsi intorno a Noceto, le viti sulla collina di Barbaresco, la strada e l’inverno di Treiso il paese dove è morto. Non è facile dimenticarle, perché sono immagini armoniose, spartite come una pagina di musica, illuminate come vetri trafitti dalla luce, ma soprattutto perché insieme con i luoghi rivive lui, fotografo, ritorna il suo sguardo, ritorna il suo sorriso incrinato di una sottile malinconia, perché era un sorriso che affiorava filtrato attraverso le pene che lui conosceva bene: le sue e quelle degli altri.
(da “Mattino sulla Langa”, Famija Albèisa, 1980)